برنيكه الذهبية
برنيكه الذهبية Berenice Panchrysos برنيكه پانخريسوس | |
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مدينة وميناء | |
موقع برنيقه الذهبية بين السودان ومصر | |
التاريخ | |
برنيقه الذهبية (باليونانية: Βερενίκη Πάνχρυσος، وتُنطق "برنيكه پانخريسوس"، اسطفانوس البيزنطي، s. v.؛ اسطرابون xvi. 771) كانت في قديم الزمان مدينة وميناء في مصر الفرعونية، مقابل مملكة سبأ في منطقة سماها المؤرخون اليونانيون منطقة أهل الكهوف باليونانية قديمة: ρεγιό τρωγλοδυτικό، "تريگلوديتيكا"، في الجانب الغربي للبحر الأحمر، في منطقة يحدها خطا عرض العشرون والحادي والعشرون، في ما يُعرف اليوم بالسودان، ملامسة للطرف الجنوبي الغربي لـمثلث حلايب، وبالتحديد بين عيذاب ودنقناب.
لُقّبت باليونانية باليونانية قديمة: Πάνχρυσος، پانخريسوس، أي "الذهبية بالكامل"، لموقعها القريب من مناجم الذهب المنتشرة في محيط جبل العلاقي (الواقع في أقصى شرق وادي العلاقي)، وكان المصريون القدماء يستخرجون من هذه المناجم جُلّ احتياجاتهم من المعادن، وكان يعمل في تلك المناجم - بحسب پلني الأكبر - مساجين ورهائن حرب.
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التاريخ
Berenice Pancrisia fu indicata da:
- Seti I, su una mappa del deserto di Wawat dove fece approntare, con grande dispendio di uomini e mezzi, dei pozzi di acqua;
- Ramesse II che fece incidere nel granito di una stele a Kubban, la via delle miniere. Questa stele si rese necessaria perché molti uomini che dovevano andare a dilavare l'oro, morivano di sete, persi nel deserto o sulla via del ritorno, non portando quindi più il prezioso carico nelle casse del faraone. Inoltre ripristinò i pozzi d'acqua scavati da Seti I che nel frattempo si erano prosciugati per diminuzione della portata della falda idrica legata alla desertificazione già in atto. Il pozzo, di cui parla la stele di Kubban, è molto probabilmente quello scoperto da una spedizione russa a cinquantacinque chilometri dalla foce del Uadi Allaqi;
- Thutmose III che nel tempio di Karnak, a Luxor, illustrò, sulla parete del VI pilone, gli Annali che recitavano lunghi e minuziosi conteggi dei tributi in oro provenienti dalla regione di Wawat. I geroglifici ci dicono che da quella zona, in soli quattro anni, furono importati circa 11.000 deben di oro puro e cioè quasi una tonnellata;
- Plinio il Vecchio che la citò nella Naturalis Historia libro VI "... Berenicen alteram, quae Panchrysos cognominata est...";
- Diodoro Siculo che, circa 30 anni a.C., descriveva le zone di quarzo aurifero della Nubia tolemaica, nel suo libro III della Biblioteca Storica. Questi ci informava che a sud dell'Egitto, tra Arabia ed Etiopia, c'era un luogo pieno di minerali e di miniere d'oro e dove con immani fatiche veniva estratto l'oro.
Anche numerosi esploratori arabi conoscevano Berenice Pancrisia ma, all'inizio del IX secolo, le mutarono il nome in وداي العلاقي e in Ma'din ad-dahab ossia miniera d'oro.
Restò conosciuta fino al XII secolo quando iniziò il declino, poiché estrarre oro, nel deserto, divenne eccessivamente costoso principalmente per carenza di acqua.
Poi, nel 1600 circa si perse l'ubicazione precisa e Berenice fu cancellata dalle carte geografiche e dalla toponomastica. Si incominciò a cercarla, in tempi successivi, tra il Uadi Hammamat e il Uadi Allaqi ove le carte arabe segnavano il nome Derahejb (o Alachi), fino a restituirla alla storia nel 1989.
Tanto oro, questo era ciò che Pancrisia doveva al faraone che ne era l'unico proprietario. Oro, la carne degli dei e la luce di Ra. Oro, il metallo nobile e il più desiderato.
Sarcofagi, statue, monili, punte di obelischi, pavimentazioni di regge: tutto splendeva, in Egitto, nella luce aurea del simbolo dell'eterno.
Il sarcofago di Tutankhamon, che pesa più di 100 chilogrammi, è tutto in oro massiccio e anche gli arredi sono in oro, laminato. Quasi l'ottanta percento del metallo arrivava dalla zona mineraria di Berenice Pancrisia ed a cercare nuove miniere i faraoni mandavano i Sementi, ricercatori che contrassegnavano, con la propria firma, le rocce di quarzo che scoprivano. Tra tanti nomi si trovano anche quelli di semplici viaggiatori e di funzionari governativi come Hekanefer.
Dei minatori, della gente che lì viveva poco si conosce perché le tracce di attività umana sono veramente tenui: pietre rozze e semplici cocci parlano solo della dura fatica quotidiana dei minatori, la cui unica speranza era "di morire il più presto possibile" come scrive Diodoro.
Ma tutta la zona limitrofa è ricca di reperti come macine a rotazione e a sfregamento, pestelli, piani per lavaggio della polvere aurifera con ingegnosa raccolta della preziosa acqua ed altri utensili.
Forse donne e bambini vivevano altrove come spesso accade nei siti minerari, ma nulla è provato.
Intorno alla città resti di edifici, imponenti tombe, vaste necropoli e soprattutto un centinaio di miniere per l'estrazione dell'oro che, con i loro pozzi di aerazione, rendono ancor più aliena la superficie di questa terra.
Gli uomini, al chiuso delle gallerie, scavavano con strumenti di pietra alla fioca luce di lampade ad olio, per trovare le piccole inclusioni di quarzo e in cunicoli così stretti da far pensare che vi lavorassero i pigmei o i bambini. Poi il quarzo veniva frantumato con pesi di pietra, polverizzato nelle macine e dilavato per ricavare l'oro. Da una tonnellata, di materiale grezzo, si ottenevano solo quattro, cinque grammi d'oro.
La raccolta della quarzite era effettuata sia dai depositi alluvionali che da scavi in superficie, a trincea, a galleria e a pozzo. Questi ultimi segu